Il ruolo del Manager – Il nuovo scenario

Il ruolo del Manager – Il nuovo scenario

Il Manager si trova a vivere un presente di drastica rottura dal passato. Questa rottura è caratterizzata da cambiamenti in corso difficili da inquadrare e quelli futuri ancora più imprevedibili.

Guardiamo meglio la situazione con una metafora.

Si potrebbe paragonare a un volo tra le nuvole. E proprio come un volo cieco, per evitare di finire in mezzo a una tempesta o contro un ostacolo, il pilota deve poter disporre di strumenti che lo aiutino nella guida!

Uscendo dalla metafora, il Manager deve dunque disporre di strumenti che gli consentano di orientarsi in un universo relazionale reso sempre più complesso. Complessità che nasce dai mutamenti socio/culturali e tecnologici che impongono velocità, consapevolezza, efficacia, per saper aggiornare continuamente i paradigmi di riferimento.

Si configura, perciò, un Manager che, da semplice fornitore delle competenze specialistiche (ovvie) diventi pienamente partecipe dei risultati aziendali, ampliando la propria prospettiva: prevedere e interpretare i cambiamenti, accelerare il processo di apprendimento continuo – proprio e degli altri, innovare i processi, valorizzare il capitale umano aziendale puntando alla formazione di team resilienti, saper utilizzare la potenzialità presente nelle diversità e in una filosofia di lavoro di tipo collaborativo.

Un percorso formativo specifico

Questo risultato può essere ottenuto solo in un modo. Impadronendosi di quelle competenze trasversali (soft skills) che condizionano positivamente il binomio comportamenti/relazioni, elevandone la qualità, ossia l’efficacia e l’efficienza.

Un percorso formativo effettivamente costruttivo in tal senso richiede l’azione convergente di due fattori: contenuti e metodo.

I contenuti devono partire dalla scoperta di quali soft skills sorreggono tutto l’impianto del proprio potenziale. Poi passare attraverso l’esercizio della leadership, la guida e valorizzazione dello stress e dell’emotività, l’uso strutturato della comunicazione, la capacità negoziale.

Il metodo, impostato su una logica di processo e sull’equilibrio tra la parte concettuale e quella applicativa, consente quindi di: facilitare l’apprendimento, consolidarlo nel tempo, disporre delle risorse per un miglioramento continuo e autonomo. In tal modo si ottiene l’effettivo e decisivo passaggio dalle conoscenze alle competenze.

Persone al centro | Ticino Management

Ticino Management - Persone al centro - Elia Contoz

Il numero di febbraio di “Ticino Management”, mensile svizzero di finanza economia e cultura, dedica un articolo alla centralità delle persone nelle imprese.

L’articolo raccoglie le considerazioni di Antonio Bassi, responsabile del Master Supsi (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana) in Project Program e Portfolio Management del Dipartimento tecnologie innovative – e di Elia Contoz psico-pedagogista, formatrice e docente formazione continua presso il Dipartimento tecnologie innovative.

I due docenti mettono in luce gli aspetti, interdipendenti, che contribuiscono a dare concretezza “economica” all’apporto del fattore umano, in quanto decisivi per i risultati di efficacia ed efficienza dell’attività professionale: la motivazione, le competenze relazionali, le modalità comportamentali. In sintesi le soft skills.

Leggi l’articolo completo qui

Smart Management

Introduzione

Parlare di valore economico dell’emotività ha un senso logico o è un ossimoro?

La risposta deve partire dal significato di “valore economico”. La letteratura fornisce, a tale proposito, numerose interpretazioni la cui differenziazione è sostanzialmente determinata dall’ottica di riferimento: finanza, prodotto o servizio, azienda nel complesso, ecc.

Qualunque sia la definizione si può, però, sintetizzare il concetto di valore economico in un qualsiasi risultato quantificabile monetariamente.

Tutto qui? Certamente è l’obiettivo di qualsiasi attività lavorativa, ma un’Organizzazione lo può raggiungere se le Persone (non a caso individuate come Risorse Umane o Capitale Umano) che la compongono agiscono in modo adeguato, ossia efficace ed efficiente.

Troppo spesso, per semplificare la gestione delle Risorse Umane ed evitare di affrontare la complessità dell’universo “persona”, i vertici delle Organizzazioni, sottovalutando l’impatto delle emozioni sui comportamenti e quindi sull’attività lavorativa, tendono a impostare strategie organizzative concentrate sui processi e sulle sole competenze “tecniche” necessarie per realizzarli.

Il tener conto delle aspettative delle persone, l’avere comportamenti relazionali etici – magari oggetto di Politiche per le Risorse Umane, tanto ben scritte quanto solo di facciata – sono spesso ritenuti esercizi di mera generosità imprenditoriale, come una donazione, quasi un lusso, non una componente necessaria per ottenere l’efficacia e l’efficienza, cioè il valore economico.

Si tratta di un approccio che trova – o meglio ha sempre trovato – giustificazione nella separazione netta tra ragione ed emozioni, considerando questi due fattori antagonisti e il secondo limitante e fuorviante per il buon funzionamento del primo.

La presunta dicotomia tra ragione ed emozioni ha profonde radici nel passato ed è sempre stata espressa dalla trasposizione anatomica dei due ambiti:

  • sede della ragione g il cervello
  • sede delle emozioni  g il cuore.

Il Dizionario dei modi di dire della Hoepli esprime molto bene questo concetto:

“Il cuore è stato eletto a sede dei sentimenti, delle emozioni, degli impulsi spontanei e delle facoltà affettive, in contrapposizione al cervello che rappresenta il pensiero, l’intelligenza, il senno e la facoltà raziocinante. Un tempo nel cuore si ponevano anche il valore in battaglia e il coraggio in generale”

Era un pensiero così consolidato da essere considerato valido anche da pensatori/filosofi: François de La Rochefoucauld diceva infatti “La mente si lascia sempre abbindolare dal cuore”. Affermazione che, però, nella distinzione tra i due fattori condizionanti il comportamento umano ne individua l’interazione e, tendenzialmente, la supremazia dell’emotività sulla ragione.

Il passaggio verso la consapevolezza della convergenza funzionale tra ragione ed emozioni si trova in una frase del 1995 di Nelson Mandela: “Una buona testa e un buon cuore sono sempre una combinazione formidabile”. Nella quale permane il ricorso alle due parti anatomiche – testa e cuore – ma come comoda metafora per esprimere il concetto.

L’unione fa la forza

Partiamo dalla citazione del poeta e filosofo libanese Kahlil Gibran per iniziare l’esplorazione della relazione tra ragione ed emozioni:

“Ragione e passione sono timone e vela della nostra anima navigante”.

Il poeta ha evidentemente attribuito al termine passione la connotazione positiva di fattore emotivo coinvolgente e stimolante e non il significato etimologico che richiama una condizione di sofferenza.

L’intuizione del poeta trova piena conferma dall’esame di come si caratterizzano i due emisferi del cervello e, perciò, come incidono sui comportamenti.

  • L’emisfero sinistro sovrintende a:

razionalità

logica

linearità

linguistica

analisi

matematica

a la GUIDA

  • L’emisfero destro sovrintende a:

immaginazione

creatività

intuizione

visione globale

collocazione spazio/temporale

emotività

a la SPINTA

I collegamenti neurali tra i due emisferi e, più in generale tra tutte le parti del cervello sono sempre attivi e determinano un continuo moto di azione/reazione: una sorta di frenetico pingpong, nel quale ogni colpo di pallina induce un cambiamento nel colpo successivo.

Risulta, perciò, evidente che i due fattori – ragione ed emotività – hanno un legame indissolubile e che trattarli separatamente ha senso solo nell’ottica di arrivare al loro utilizzo più completo, affrontandoli come due elementi in ingresso del “processo comportamentale”: il proprio e, per quanto oggetto di relazione, quello degli altri.

La catena del valore

Il concetto di valore economico, sintetizzato nell’introduzione, necessita di essere riconsiderato e ampliato, procedendo in due direzioni che non sono parallele, ma strettamente intersecanti:

  • i risultati aziendali sono il frutto dei comportamenti (azioni) delle persone;
  • le persone devono, perciò, essere in condizioni di agire in modo da ottenere i risultati = operare con efficacia ed efficienza.

Questa seconda direzione dovrebbe essere la conseguenza logica della prima, ma in realtà è molto spesso più predicata che applicata concretamente.

La rappresentazione grafica rende più facilmente visibile il percorso:

PROCESSI

Questo percorso manifesta un ulteriore elemento di riflessione, molto importante: la necessità della coincidenza tra obiettivi aziendali e obiettivi personali: il raggiungimento dei secondi è propedeutico al raggiungimento dei primi. Non solo: in una situazione ottimale il collegamento tra le due categorie di obiettivi finisce per essere circolare, cioè in costante rafforzamento l’una dell’altra.

Esiste, ed è piuttosto diffusa, l’idea che possa nascere un contrasto di interessi tra gli obiettivi aziendali (es. il risultato economico/finanziario) e gli obiettivi personali (la soddisfazione dei propri fabbisogni).  Fabbisogni che prendendo a prestito la teoria di Alderfer possono essere catalogati come bisogni di esistenza, bisogni di relazione, bisogni di crescita.

Si deve ritenere che questo rischio di contrasto sia ineluttabile? La risposta è NO!

Questo perché, come visto, il raggiungimento dei risultati aziendali e il loro continuo miglioramento sono strettamente e assolutamente dipendenti dalla “persona” (es. il Manager) e non da una figura esperta, dedita asetticamente ad attività tecniche come una qualsiasi attrezzatura robotica, ininfluente sulla relazione con le altre persone coinvolte.

Ecco, perciò, che il percorso circolare di interdipendenza risulta tanto più proficuo quanto più la “persona” riesce a mettere in campo tutta la propria potenzialità: il pieno utilizzo delle capacità razionali esaltate dalle spinte emotive.

Sono proprio le spinte emotive che hanno una grandissima influenza sui comportamenti, pertanto sulla qualità delle azioni che le competenze tecniche consentono di realizzare. Tale influenza può indirizzarsi su due strade opposte: una strada limitante e una strada potenziante.

La prima strada è generalmente conseguenza di una gestione meramente istintiva dell’emotività o, per contro, dallo sforzo di bloccarla, vivendola come un’interferenza fastidiosa.

La seconda strada si apre quando prende concretezza applicativa (e continuativa) la consapevolezza che emotività e razionalità sono entrambe risorse e, come tali, vanno fatte fruttare, coltivandole con cura e sistematicità e per farlo con successo occorre conoscerle, valutarle e alimentarle.

Si tratta di attività che risultano normali per la razionalità, mentre sono affrontate con diffidenza o addirittura non affrontate per l’emotività.

In altri termini è diffusa la tendenza a considerare come fattore facilmente modificabile e migliorabile la ragione, e invece a considerare fattore difficile da modificare l’emotività. Quanto spesso si sente dire: cosa vuoi, sono fatto così”.

Che i due ambiti presentino difficoltà diverse è esperienza di tutti e di tutti i giorni. Non occorre ricorrere a studi o a esperti per averne coscienza: basta un minimo di analisi di sé e degli atri.

L’emotività strutturata

L’emotività, nonostante la complessità, può essere affrontata con modalità atte ad ottenerne il miglioramento.

Nello specifico del Manager, è molto importante considerare questa funzione come una medaglia a due facce, tutte e due necessarie e completamente interdipendenti: la faccia che riguarda il sé e la faccia che riguarda gli altri – collaboratori, colleghi, superiori, ecc.

Il Manager consapevole dell’enorme potenza dell’emotività, deve affrontare il percorso per migliorare la propria e creare le condizioni per consentire a tutti gli interlocutori di fare altrettanto.

Come? Affrontando il miglioramento come un processo, perciò definendo:

  1. gli obiettivi: gli aspetti dell’emotività necessari o utili per lo svolgimento del proprio lavoro, ivi compresi quelli relativi alle relazioni interpersonali;
  2. le risorse necessarie: il livello necessario per ciascun aspetto;
  3. le risorse disponibili: il livello disponibile (autovalutazione);
  4. le azioni per colmare le lacune: es. formazione, studio, coaching,  allenamento;
  5. la verifica: il controllo che le azioni siano risultate efficaci;
  6. gli aggiustamenti: le azioni per supplire all’eventuale inefficacia;
  7. la sistematicità: la pianificazione nel tempo per garantirsi il costante aggiornamento e il miglioramento continuo.

Si tratta di un unico processo, in quanto attiene a condizioni di fondo valide per tutti, come ampiamente dimostrato dai recenti studi delle neuroscienze applicate al contesto lavorativo con particolare riferimento al management. È, però, un processo che, pur basandosi su una linea strategica comune, richiede metodiche applicative personalizzate.

La conseguenza per il Manager, è in primo luogo, la necessità di aggiungere alle proprie competenze anche la competenza emotiva, ossia l’insieme di conoscenze e abilità per conoscere e guidare il coacervo delle emozioni, all’apparenza, disordinato e anche un po’ infido.

In effetti si tratta di un insieme molto complicato, del quale ciascuno ha esperienza diretta e costante, ma che risulta difficile inquadrare e, soprattutto, ricondurre a schemi con un chiaro rapporto tra causa ed effetto, come accade per i fenomeni fisici e chimici.

La risposta più usuale a questa difficoltà oggettiva è quella di tralasciare la faccia che riguarda il sé e semplificare la faccia che riguarda gli altri, concentrando la gran parte dell’attenzione agli aspetti comunicativi, rischiando di confondere il mezzo con il fine.

Il Manager non può più limitarsi a questo o a poco altro: deve entrare nel merito di come generare le emozioni costruttive e come ridurre le distruttive dei componenti del suo team e, per far questo, deve prima ancora lavorare su sé stesso con questo obiettivo.

Così può essere certo di poter perseguire la soddisfazione degli obiettivi personali – propri e degli altri – che sono alla base del miglioramento di efficacia ed efficienza, cioè degli obiettivi aziendali.

Questo processo oggi può essere significativamente guidato dalle scoperte delle neuroscienze, riducendone l’aleatorietà, potendolo configurare con la logica usualmente applicata per affrontare proficuamente i processi

Occorre tenere conto che la valutazione delle caratteristiche emotive necessarie per il ruolo nel contesto e, soprattutto, l’autovalutazione sono il cardine, ma anche la difficoltà: richiedono obiettività, curiosità intellettuale, etica relazionale e approccio olistico, senza limiti pregiudiziali e tentativi di scorciatoie.

Conclusioni

Il percorso nell’elenco sopra riportato porta a inquadrare e a gestire l’emotività in maniera decisamente strutturata, consentendo perciò di costruire quella che può essere definita:

Intelligenza Emotiva

in quanto porta a dare alle emozioni effettiva consistenza di risorse e a trattarle come competenze.

Si può, pertanto, ritornare al focus di tutto il discorso, ossia al valore economico:

  1. Pieno utilizzo delle proprie potenzialità

a capacità di guida

a energia data dalla spinta  propulsiva

  1. Miglioramento del proprio benessere, anche in situazione critiche

a maggiore concentrazione

a minore stress

  1. Miglioramento delle relazioni

a più collaborazione

a meno conflitti

tab. 3

I vantaggi conseguenti interessano le due aree coinvolte:

  • Aziendale

produttività

+   qualità

=   risultati economici e rafforzamento commerciale

  • Personale

+   soddisfazione

+   qualità della vita

=   risultati professionali e relazionali

tab. 4

Inquadrare l’intelligenza emotiva come competenza determina che, come tutte le competenze, si esprime in capacità, quali:

  • gestire l’umore
  • automotivarsi
  • utilizzare l’intuizione
  • saper trattare le sconfitte
  • gestire l’energia
  • evitare dipendenza
  • ecc.

E può essere:

  • acquisita
  • implementata
  • verificata sistematicamente
  • rinforzata
  • diffusa

L’ultimo azione – la diffusione – è di particolare rilievo per un Manager in quanto gli consente di costruire un team capace di lavorare con efficacia ed efficienza, anche quando questo team non è fisso ma formato specificatamente per un progetto o una condizione temporanea.

È importante considerare che la diffusione non si basa sulla semplice esposizione concettuale, ma si costruisce con l’applicazione sistematica, quotidiana, talvolta coraggiosa, della competenza emotiva, inducendo un effetto trainante che è il solo realmente efficace. 

Che impresa fare… IMPRESA!

Premessa

L’ingresso delle nuove leve nella realtà imprenditoriale e manageriale deve fare i conti con due scenari che ne condizionano il livello di difficoltà:

  • lo scenario generale socio/culturale ed economico;
  • lo scenario specifico delle strutture aziendali più diffuse, ossia le PMI.

Scenario generale

Caratterizzato dal continuo e sempre più veloce cambiamento, tale da rendere:

  • rapidamente obsolete le certezze organizzativo/gestionali acquisite, con il conseguente stato di sistematica incertezza e il rischio di voler considerare la storia aziendale come una zavorra di cui liberarsi e non un patrimonio di conoscenze dal quale trarre le connessioni utili per un’innovazione proficua;
  • sempre più complicate e delicate le modalità relazionali, sia interne all’Azienda sia esterne (clienti, fornitori e tutti gli stakeholder in genere);
  • molto complicato trovare il miglior equilibrio tra le innumerevoli modalità comunicative messe a disposizione dalla tecnologia, anche a causa della capacità di alcuni tipi di emanare un «fascino» che non sempre corrisponde a una sostanziale efficacia ed efficienza;
  • insopportabilmente antieconomico muoversi sulla linea del tradizionale paradigma – imparare dagli errori – richiedendo il passaggio al paradigma: imparare ad evitare gli errori.

Le conseguenze:

PassatoSituazione sicura, pratiche consolidateSi fa quello che si è imparato a fare … e che ha sempre funzionato
PresentePuò diventare devastanteCome controllarlo?
FuturoLe condizioni e il livello di complessità cambiano continuamenteRichiede il costante adeguamento delle competenze

Scenario specifico

Le PMI sono per lo più caratterizzate dalla predominanza di due fattori strutturali:

  • le dimensioni contenute;
  • l’impostazione a conduzione familiare.

Tali condizioni tendono generalmente a determinare:

  • senso della Titolarità (proprietà) prevalente sulla Managerialità;
  • ingresso delle nuove generazioni ritenuto ineluttabile, indipendentemente dalla effettiva preparazione e (talvolta) volontà;
  • scarsa mobilità interaziendale, perciò ottica monocorde;
  • difficoltà a equilibrare il ricambio generazionale, in bilico tra la sottovalutazione del patrimonio di conoscenze accumulato e il timore di salti nel buio;
  • ancoraggio alla logica dell’esperienza come elemento dominante per la costruzione delle competenze, in uno scenario generale nel quale
  • Il tempo concesso per la crescita professionale è quasi azzerato,
  • le nuove competenze necessarie vanno oltre quelle disponibili (e perciò trasferibili) all’interno dell’azienda.

Azione

i due scenari descritti nella premessa e le conseguenze che portano – o rischiano di portare – sono lo spunto per immaginare un possibile piano d’azione, incentrato sulla crescita delle competenze trasversali – SOFT SKILL: determinanti per giungere al pieno utilizzo delle competenze «tecniche» specifiche – HARD SKILL – sia proprie che delle altre persone coinvolte, a qualsiasi titolo, nell’attività aziendale.

Un piano efficace può prevedere tre fasi:

La VISIONE del percorso

  • dalla TEORIA alla PRATICA
  • dalle buone INTENZIONI ai buoni COMPORTAMENTI

La MISSIONE del percorso

  • Autoconsapevolezza
  • Guida delle PERSONE
  • Gestione dei PROCESSI

Il Focus sui risultati

  • Piano d’azione personale
  • Verifica dei progressi
  • Interventi migliorativi

Il piano d’azione dovrebbe essere impostato in modo da raggiungere i seguenti obiettivi e con le conseguenti ricadute in termini di risultati attesi.

Obiettivi

  • Inquadrare il proprio ruolo nel sistema aziendale, comprendendone le ricadute sugli altri ruoli
  • Avere una panoramica degli ambiti d’azione del Manager (anche il Titolare è a tutti gli effetti un manager) e delle loro interrelazioni
  • Esplorare le caratteristiche salienti di ciascun ambito
  • Disporre delle linee guida per:
  • scoprire le proprie potenzialità e le proprie lacune
  • apprendere le modalità che consentono di potenziare le prime e ridurre le seconde
  • Impostare uno stile relazionale che consenta di esprimere e far esprimere il meglio
  • Conoscere le modalità per sviluppare e tenere sistematicamente in gioco la consapevolezza di:
  • scenario nel quale l’Organizzazione opera
  • identità dell’Organizzazione
  • risorse intellettive necessarie e livello personale posseduto
  • Innescare un processo di continuo aggiornamento e approfondimento

Risultati attesi

I risultati di crescita delle competenze del Neo Manager determinano delle ricadute positive anche sugli altri componenti dell’Organizzazione nella quale opera e sull’Organizzazione stessa:

Mettere le ali alle competenze

L’importante è imparare ad imparare!

La crescita delle competenze è tema che interessa chiunque abbia ruoli di responsabilità all’interno di un’Organizzazione, aziendale o di qualsiasi altro tipo.

Per entrare nel merito della questione, è opportuno preliminarmente definire in maniera inequivocabile di cosa si sta parlando, ossia definire il significato di competenza. Ci facciamo aiutare dal dizionario Treccani on line che fornisce questa definizione:

“Indicatore della capacità complessiva che manifesta una persona nell’affrontare uno specifico settore di attività o un determinato lavoro”

La definizione dell’enciclopedia Treccani prosegue introducendo dei concetti che ci consentono di dare pieno valore all’aggettivo “complessiva”. Ci dice, infatti, che la competenza

“si differenzia dall’attitudine, che indica la predisposizione a un compito e dall’abilità, che si acquisisce solo con l’esperienza specifica nel settore … mentre la competenza riunisce in sé capacità pratiche, conoscenze acquisite dall’individuo in altri contesti, esperienza nel ruolo e affinità di tipo psico-attitudinale alle mansioni da svolgere”.

Possiamo, perciò, dedurne che la competenza è tale se le doti innate e l’esperienza vengono integrare da conoscenze che vadano oltre quelle direttamente derivabili dal contesto nel quale si realizza l’esperienza stessa. In altri termini, le conoscenze che portano alla competenza devono essere anche di tipologia non strettamente correlate all’attività da svolgere, ma riguardare ambiti in grado di accrescere la ricettività all’apprendimento e lo sviluppo di nuove connessioni neuronali.

Questo concetto determina due conseguenze sulla costruzione e sul miglioramento delle competenze:

  1. l’esperienza è fattore necessario ma non sufficiente;
  2. l’apprendimento di conoscenze deve essere continuativo e multiforme.

La prima conseguenza dovrebbe essere intuitiva se non fosse che richiederebbe la disponibilità a mettersi sistematicamente in discussione, a uscire dalla zona di comfort rappresentata dall’abitudine insita nell’esperienza. Si tratta di una tentazione alla quale è difficile resistere.

Una rappresentazione grafica, seppure puramente indicativa, può aiutare a cogliere la differenza di crescita della competenza tra un percorso incentrato sulla sola esperienza e un percorso che prevede anche delle fasi di accrescimento della conoscenza attraverso la formazione (fig. 1).

La linea della soluzione “formazione + esperienza” prevede delle fasi di cambiamento alternate a fasi di consolidamento: è un percorso per descrivere ci permettiamo di prendere in prestito da “Ultime notizie sull’evoluzione Umana” di Giorgio Manzi la sua esposizione della teoria sullo sviluppo scientifico enunciata nel 1962 dallo storico della scienza Thomas Kuhn nel suo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”:

“il progresso scientifico avanza a salti che definisce ‘’slittamenti di paradigmi’’ dove paradigma è un sistema coerente di visioni della realtà che, in un certo momento storico è condiviso dalla comunità scientifica di riferimento e tale rimane fino al paradigma successivo. Nel tempo la ricerca si muove su un terreno che potremmo definire pianeggiante, dove si indagano le conseguenze del paradigma condiviso, in una fase di relativa stasi definita da Kuhn ‘’scienza normale’’. Fino a quando i conti non tornano più e si attraversa una ‘’fase ‘rivoluzionaria’’, conclusa dall’affermazione di un nuovo paradigma che a sua volta precede la successiva fase di scienza normale”.

Utilizzando questo riferimento come metafora possiamo chiarirci concetto, aggiornando di conseguenza il grafico relativo alla parte di formazione + esperienza:

Questo percorso, valido per qualsiasi tipo di competenze, è di fatto normalmente utilizzato per quelle inquadrabili come tecniche, ossia quelle specifiche del ruolo svolto. Risulta meno abituale per le competenze trasversali, la cui rilevanza (peraltro, decisamente notevole) per la piena espressione delle tecniche tende a essere sottovalutata.

A tale proposito risultano opportune due considerazioni:

  1. su queste competenze l’esperienza incide pochissimo;
  2. la definizione di competenza data all’inizio, evidenzia l’indispensabilità di “conoscenze acquisite in altri contesti”.

Possiamo, in conclusione, sintetizzare il flusso logico per la crescita – sostanziale e rapida – delle competenze:

 

Analisi e interpretazione dei dati

Uno dei principi fondanti della qualità (e dei criteri di gestione in genere) più enunciato dice che “Le decisioni devono essere basate su dati di fatto”.

Si tratta del pressante invito a considerare rischioso fare conto su intuito e istinto che, pur essendo fattori estremamente importanti, comportano il rischio di un’errata valutazione della realtà e, di conseguenza, di indurre a scelte sbagliate e pertanto onerose (sempre più onerose). Espressa in questi termini la questione sembra semplice, ma come ben sa chiunque si trovi a decidere ci sono delle complicazioni, sia nella fase della scelta dei dati da utilizzare sia nella loro analisi e interpretazione.

Riportiamo qui due citazioni che, pur riferite l’una all’ambito scientifico e l’altra a quello sociale, aiutano a chiarire le cause prime delle complicazioni.

Vito Mancuso (La via della bellezza)

“[…] i medesimi dati scientifici riguardo all’origine della vita e dell’intelligenza vengono interpretati in modo diverso o addirittura contrapposto: da un lato vi sono scienziati che le ritengono un caso, dall’altro scienziati che le ritengono uno sbocco logico. Il che significa altresì che il criterio decisivo dell’interpretazione non risiede nell’analisi oggettiva dei dati, ma nella convinzione soggettiva dell’interprete, nella sua filosofia di vita, la quale, se non dipende dai dati, da dove proviene? Proviene dalla sua emozione vitale e dal suo istinto.”

Vincent van Gogh (Lettere a Theo)

“Le opinioni possono far cambiare alcune verità acquisite tanto quanto un gallo sulla cima di un campanile può far cambiare direzione al vento. Non è il gallo che può far sì che il vento provenga dall’est o dal nord, né le opinioni possono rendere più vera la verità.”

Le citazioni ci portano a riflettere su un dato di fatto: la storia personale e l’incidenza dell’emotività sono inevitabilmente elementi condizionanti, tali da indurre scelte precostituite – perciò non adeguatamente correlate alla realtà – nella ricerca dei dati e nella loro lettura.

Ritenersi assolutamente asettici sarebbe il primo errore di partenza perché non è possibile, ma addirittura, se fosse possibile, sarebbe sbagliato: togliere la componente emotiva significherebbe ridurre il proprio potenziale.

E allora, come fare?

Una buona soluzione è rappresentata dall’azione su due fronti:

  1. incanalare costruttivamente l’emotività, ossia trattarla in logica di processo per arrivare a una concreta e strutturata “intelligenza emotiva”;
  2. caratterizzare la propria leadership, portandola ad essere una componente del binomio “leadership + membership”, ottenendo un’effettiva costruzione del team.

Quali le conseguenze?

  1. Disporre dell’intero bagaglio di capacità personali: razionalità ed emotività per arrivare alle decisioni da prendere senza “manipolare” con preconcetti i dati e senza rinunciare a configurare tali decisioni secondo le effettive necessità.
  2. Utilizzare l’intero patrimonio di capacità presenti nel team, grazie alla ricchezza rappresentata dalla diversità di opinioni; diversità che riduce i rischi di errori.

Questo modo di procedere consente anche di evitare il rischio di burocratizzazione della gestione dei dati, portando a un’analisi critica sistematica delle modalità di raccolta e di analisi, con la conseguenza di ridurne la validità nel tempo, trovandoli non più descrittivi della verità dei fatti, rendendo, perciò, allettante (e quasi inevitabile) il ricorso al solo intuito.

A tale proposito possiamo trovare un ulteriore aiuto nel libro sopracitato di Vito Mancuso che rifacendosi all’etimologia del vocabolo verità ci fa notare che In latino il termine veritas (verità) ha la stessa radice del termine “primavera” (ver): un legame che attesta come originariamente il concetto di verità non si riferisse all’esattezza – verità scientifica o religiosa, ma al dinamismo della natura che si manifesta pienamente in primavera.

La metafora del cambiamento primaverile è quanto mai azzeccata per il dinamismo che le aziende devono mettere in campo e che richiede, anche che attività apparentemente stabili e “aride” come la gestione dei dati, siano guidate con intelligente consapevolezza.